Alle 8,45 del 2 gennaio 1960 muore Fausto Coppi, il “Campionissimo”, così come era stato soprannominato per le sue innumerevoli vittorie; il ciclismo, ma più in generale lo sport mondiale, perdono un grande campione divenuto un mito per tutti.
Era nato a Castellania (AL) il 15 settembre 1919 da una famiglia povera.
Bartali e Coppi
Timido e taciturno, ex garzone di salumerie, poco più che ventenne diventa gregario di Bartali e vince il suo primo Giro d’Italia: era il 1940. Seguiranno tantissimi successi, intervallati da incidenti e pettegolezzi sulla sua vita sentimentale.
Le sue fughe solitarie, la rivalità con Bartali, le vittorie in tutte le corse più importanti, sia a tappe che in linea, le sue straordinarie capacità di corridore completo, scalatore, cronometrista, ecc. lo resero popolare in tutto il mondo e riempirono per quasi un ventennio le pagine dei giornali.
La sua morte getta l’Italia nella costernazione più profonda.
Era stato in Africa per una battuta di caccia, al rientro inizia a sentirsi male; i medici pensano si tratti di semplice influenza, in realtà il germe della malaria, contratta in Africa durante la guerra, si era insidiato in lui ed era improvvisamente scoppiato senza che alcuno potesse prevederlo e capirlo.
A nulla servono gli sforzi dei medici dell’Ospedale di Tortona: Coppi perde conoscenza e, tra la rassegnazione generale, la vita, quella vita vissuta in modo eccellente da sportivo e turbolento da uomo.
GLI SPORTIVI PIANGONO
(da “IL MATTINO” del 3 gennaio 1960 – Articolo di Gino PALUMBO)
C’è un ragazzo fermo, qui sotto, nel mezzo dell’Angiporto Galleria. Avrà quindici anni, poco più. Ha un giornale tra le mani, il giornale che dà la notizia della morte di Fausto Coppi. Lo sguardo è velato dalle lacrime: gli occhi sono fissi sul volto del campione disteso sul letto. Nell’Angiporto il traffico è caotico, intensissimo: è l’ora in cui escono i furgoni con le edizioni serali. Ma il ragazzo è immobile, lì nel mezzo: i motociclisti lo sfiorano, c’è chi suona il clackson, chi urla. A fatica qualcuno, prendendolo sotto il braccio, lo spinge fino al marciapiede. Lui piange. Tanti ragazzi italiani piangono. Fausto Coppi apparteneva a loro, era il loro idolo, era l’atleta che aveva acceso la loro fantasia, era l’uomo che nell’epoca più intensa del progresso – epoca spietata, senza miti – aveva creato la leggenda dell’uomo solo che vince la tempesta e la montagna. Intorno, i “grandi” parlano di un altro Coppi. Il Coppi della cronaca. Il Coppi della vita di
ogni giorno. Il Coppi senza bicicletta. Loro, i ragazzi, non capiscono: il Coppi senza bicicletta non lo conoscevano, nè l’avrebbero concepito. I “grandi”, seppur commossi, per la sua lunga catena di sventure, frugano, con curiosità morbosa, nell’intimità della sua vita: vogliono sapere se al capezzale del campione morente le due donne che l’amarono s’incontrarono o si sfuggirono; vogliono sapere chi seguirà il feretro, se la moglie o la compagna; vogliono sapere se ha fatto testamento, a chi apparterranno i suoi milioni… I ragazzi non sanno chi sia la ” dama bianca”, i ragazzi ignorano che Marina è figlia legittima, e Fausto invece non lo è, i ragazzi non sanno che lo sguardo del campione era triste e spaurito, quasi presago delle sue amarezze e delle sue sfortune, i ragazzi non sanno che Coppi era un timido travolto dalle vicende della vita. Per loro, i ragazzi, Coppi era il campionissimo, l’invitto, il più forte di tutti, l’uomo che non poteva perdere, il solo atleta al mondo capace di imporsi sui tornanti pietrosi delle montagne e sugli anelli levigati delle piste, il solo che in cinquanta anni di ciclismo aveva vinto nello stesso anno, per due volte, le due prove più massacranti, il Giro d’Italia e il Giro di Francia… Questo è, per i ragazzi, il Coppi che è morto. E se piangendo ne parlano, è per chiedersi se è vero che nessun altro ciclista al mondo d’ogni tempo, può stare a petto con lui, nè tra gli italiani, nè tra gli
stranieri; e se è vero che solo Binda aveva uno stile potente ed elegante come il suo. E stupiscono apprendendo che il segreto della sua classe era nelle capacità miracolose dei suoi polmoni e nella conformazione del suo cuore: si chiedono quanto debba essersi logorato quel cuore se non gli riuscì di resistere all’ultimo assalto della sua ostinata sfortuna. Questo è, per i ragazzi, il Coppi che è morto. Il Coppi che debellò Bartali dopo lunga ed appassionante rivalità, il Coppi che a ventuno anni vinse il suo primo Giro, il Coppi di due Tour e cinque Giri d’Italia, il Coppi campione del mondo a Lugano, il Coppi che conquistò l’amore della Francia e dei Francesi,
terra e popolo di campioni del ciclismo, trovandosi la sua seconda Patria. Questo è, per i ragazzi, il Coppi che è morto. Il Coppi dell’Agerola, nel giorno in cui staccò tutti sull’ultima rampa e si gettò a corsa folle verso Gragnano, dando alla muta degli inseguitori – tutti di eccelsa classe, i Magni e gli Astrua, i Monti e i Moser – l’umiliazione di un sempre più cocente distacco. Il Coppi che per primo al mondo, in pista, sfiorò i 46 all’ora. Il Coppi della Sanremo, il Coppi delle estenuanti fughe in splendida solitudine verso il trionfo sulle alte vette innevate. Questo è, per i ragazzi, il Coppi che è morto. Il Coppi dominatore, invincibile, l’uomo che dieci volte pareva finito e sempre risorse, l’atleta che ancora oggi, a quarant’anni, gli organizzatori si contendevano per appagare la folla, insaziabili nel’applaudirlo. Questo è il Coppi che noi sportivi piangiamo; questo è il Coppi che l’accanirsi della sfortuna ha strappato alla vita. Ci si chiedeva perchè corresse ancora. Aveva quarant’anni, era ricco, ogni corsa gli costava sacrificio. Serse, il fratello, era morto correndo. Lui era finito in ospedale dieci volte. Affermavano che amasse a dismisura il denaro. Invece correva perchè solo in bicicletta si sentiva forte, solo in bicicletta poteva ancora sperare di vincere, giù dalla bicicletta lui si difendeva. Giù dalla bicicletta c’era la vita, con le sue amarezze, con il suo turbinìo, con i suoi sconvolgimenti; giù dalla bicicletta c’era la Occhini e c’era la Marina, c’era la moglie e c’era il piccolo Fausto, c’era la carta da bollo, c’erano gli avvocati, giù dalla bicicletta c’erano i suoi errori, c’era l’uomo con le sue debolezze. Ma in bicicletta lui era il Campionissimo; ed è ricordandolo così, in bicicletta, che gli uomini di sport ed i ragazzi oggi lo piangono. Addio, Fausto, campione eccelso, uomo buono e timido, vittorioso nello sport, sconfitto nella vita. Addio!